Usciva nel 2018, per le edizioni Contrasto, “L’armata dei senzatetto”, raccolta di opere d’arte e parole, firmata da Ascanio Celestini e Giovanni Albanese: attore il primo, tra i maggiori esponenti di quel “nuovo teatro di narrazione” fatto di racconti, incontri, immaginazioni, drammaturgie umane, messi insieme e restituiti in forma di nuove scritture; artista l’altro, ma anche regista e docente all’Accademia di Belle Arti di Roma, maestro nella pratica dell’accumulazione e della rigenerazione di oggetti rinvenuti tra mercati, officine, sfasciacarrozze, soffitte e vecchi magazzini: materiale di scarto, reinventato con ironia, delicatezza poetica e attitudine concettuale. Tutto si trasforma nel cimitero metropolitano traboccante di ferraglie, lampadine, reperti meccanici e sentimentali, in cui Albanese trova il senso di un riscatto, di un’utopia futuristica da cui la malinconia non è esclusa, perfettamente fusa con l’energia vitale.
Ci saranno entrambi, Albanese e Celstini, venerdì 14 giugno alle 17, nell’Aula Magna “Lea Mattarella” dell’Accademia di Belle Arti di Roma, per raccontare ancora segreti e ispirazioni di questa vicenda scandita da mille voci e mille storie, già sold out al Teatro Bibiena di Mantova, il 5 settembre del 2018, giorno d’apertura del Festivaletteratura, e poi presso la Sala A di via Asiago, a Roma, per la rassegna teatrale di Radio Rai “Tutto esaurito!”, e ancora ospitata al macro Asilo, al Palazzo dei Congressi di Ravenna, al Piccolo Festival della Parola di Noci, in Puglia.
Il libro è una piattaforma di sperimentazione, un’affabulazione a due voci: Albanese ridà forma e logica ai suoi oggetti incantati e Celestini li traduce in parole, tessendovi intorno vicende fantastiche, ripescandone le biografie, tramutandoli in persone. Un’ode a quell’”armata di senzatetto”, che è un cumulo di sedimenti marginali, residui sbucati da un pozzo o una discarica, corpi consumati, rotti, irregolari. Senza armonia né disciplina. Tutto quello che non serve e che la società rifiuta. Ma che può trovare respiro, accoglienza, vita nuova. E il gioco della metafora si fa veloce: uomini come cose, e viceversa.
“Non esistono oggetti muti, ma solo persone sorde che non li sanno ascoltare”, dice Ascanio. “E Giovanni cammina in mezzo a questo cimitero del presente. Parla coi morti del suo Spoon River”. Un cimitero per l’appunto, che come quello di Edgar Lee Masters – incastonato nelle memorie della provincia americana del Midwest e nell’Olimpo della letteratura contemporanea – risuona delle esistenze e delle passioni di cittadini divenuti spettri, epitaffi, fotografie. Eppure, nel silenzio dei boschi e delle valli, quei morti tornano dal loro “altrove” e si rimettono sulla linea della storia: è la parola poetica a resuscitarli, a farne voce e visione, a restituirli al mondo, come versi da continuare a scandire, commentare, mettere in scena, interpretare.
Una simile chance vanno cercando Albanese e Celestini, nelle proprie rispettive avventure professionali e in questa intelligente, ispirata collaborazione. Un’altra possibilità per tutti gli oggetti derelitti, per tutte le storie naufragate e gli scarti sociali, accantonando l’idea attuale di una competitività ossessiva, di un perfezionismo ipertrofico, di un vitalismo che ha dimenticato l’orizzonte mortale e che si è fatto, ingannevolmente, nevrosi dell’artificio e illusione fiacca del potere. Nessuno spazio sembra ormai rimasto per l’errore, la fragilità, il senso della fine, l’assenza di centro, l’eversione, il tradimento della norma e l’importanza – anche formativa – della caduta, della resa. E invece no. Filosoficamente è già un’audace prospettiva novecentesca: essere senza luogo, senza meta, fra il principio della differenza e la violenza di corpi senza organi, disarticolati e fluidi. È da qui che si origina uno spostamento virtuoso, una possibile rifondazione estetica e ricombinazione dei piani. Un’idea di salvezza, in qualche modo.
“Tutti questi personaggi”, ha raccontato Ascanio in un’intervista all’Ansa – “non vanno da nessuna parte. Noi vorremmo sempre assomigliare invece a quelli che arrivano da qualche parte, ai Ronaldo, ai calciatori, ai grandi della storia e invece dovremmo avere un po’ più di consapevolezza di quanto assomigliamo ai senzatetto che non arrivano da nessuna parte. E poi pure i Superman sono un po’ senzatetto”. Lo sono, senz’altro, le cose guaste e resuscitate che Albanese sottrae a un destino d’indifferenza o di distruzione, e che affida a un gesto creativo, tanto entusiasta quanto misurato, sottile. E dentro a questi cataloghi folli ci sono spunti umani, psicologici, esistenziali, riferimenti alla guerra, alla politica, al sacro, al gioco, alla tradizione, al quotidiano. La sfida di un artista “sempre commosso dall’incessante miracolo del nascere e del morire di tutte le cose”, come disse con puntualità affettuosa Vincenzo Cerami, “capace di cantare la bellezza muovendosi tra rimasugli e scarti, e cercando con gli occhi la presenza di un sopravvissuto spirito animatore”.
– Helga Marsala