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10 Giugno 2019
  • • Daily ABA

Estetica, politica, botanica. Leone Contini e le piante come visione del mondo

10 Giugno 2019
  • • Daily ABA

Si è concluso lo scorso 5 giugno il workshop per studenti in quattro lezioni, condotto da Leone Contini – artista, con studi in filosofia e antropologia – a cura di Anna Maiorano, docente di Decorazione – Arte Ambientale e Linguaggi Sperimentali, col contributo di Flavia Matitti, Docente di Storia dell’Arte Contemporanea, che ha tenuto due conferenza sul tema “arte e natura”.
E c’è proprio la natura al centro delle ricerche di Contini, nel 2018 presente a Manifesta 12 con un’installazione all’interno dell’Orto Botanico di Palermo, già autore di diversi progetti che attraverso performance, installazioni, lecture, disegni, interventi nello spazio pubblico, video e testi, indagano il modo in cui si relazionano il mondo delle piante, l’agronomia e le scienze botaniche, la pratica agricola, i sistemi sociali e il piano dei simboli, dei riti, delle tradizioni.
Un incontro fruttuoso, di cui abbiamo approfittato per indagare alcune questioni relative al rapporto tra estetica, politica, ecologia, paesaggio, territorio. Con l’arte a farsi processo trasmutativo, strumento di analisi e metodo di rielaborazione simbolica.

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Helga Marsala: Stefano Mancuso, nel suo “Plant Revolution”  e nella splendida mostra inaugurata di recente alla Triennale di Milano, fa un’intrigante lettura politica del “sistema piante”, associando la loro particolare struttura – un’intelligenza collettiva, stanziale, proteiforme e adattiva – al principio della democrazia. Che ne pensi di questa prospettiva? Sono davvero le piante a darci una chiave di rigenerazione politico-sociale, fuori da una visione antropocentrica?

Leone Contini: “Se le pulci sviluppassero riti lo farebbero con i cani” (Wittgenstein). Noi umani invece prediligiamo il mondo vegetale per immaginare i nostri rituali trasformativi, inclusi quelli politici, perfino per elaborare visioni del mondo in cui la nostra centralità come specie sia ridimensionata. Ma la prospettiva antropocentrica sarà pienamente sovvertita solo quando saranno le piante a mettere in atto strategie per ridefinire le gerarchie tra i viventi, come se i cani potessero finalmente liberarsi delle pulci di Wittgenstein.
Insomma, consumiamo le piante due volte, fisiologicamente e simbolicamente, oltre al fatto che l’uso “rappresentativo” della “linfa” vegetale è trasversale alle ideologie: le metafore vegetali possono (legittimamente) servirci per re-immaginare forme di democrazia radicale o per costruire confini, evocando ad esempio l’invasione di specie alloctone per giustificare discriminazioni su base etnica, culturale o religiosa.
In uno dei miei case studies, quello dell’agricoltura cinese a Prato, le politiche discriminatorie messe in atto contro questa imprenditoria migrante chiamano continuamente in causa la protezione del patrimonio orticolo locale da specie considerate “aliene”, come se esistesse un ordine rurale-naturale da proteggere (o a cui tornate), come se l’atto agricolo non fosse squisitamente umano e dunque culturale.
Anche io, pulce poietica sul dorso del cane, mi trovo a usare i suoi peli (le piante) per costruire i miei riti e le mie visioni del mondo.

Lavori da una prospettiva antropologica ed etnografica: lo studio dei territori e delle relazioni sociali, le tradizioni, i rituali, i conflitti, le dinamiche di potere, le norme e le trasgressioni, l’orizzonte magico/spirituale e quello terreno… Tutto questo si ritrova nel paesaggio e nella natura sul piano simbolico; ma quanto il paesaggio e la natura influenzano concretamente le evoluzioni culturali dell’uomo? E in che modo l’arte può rappresentare oggi una fusione tra questi due livelli?

L’invenzione del paesaggio è costituito dall’identificazione di una comunità con un determinato territorio, che viene così codificato e caricato di valore simbolico. Ma il rapporto tra il cane (il territorio) e le pulci (noi) è molto più problematico, perché se queste si nutrono del suo sangue è pur sempre il quadrupede a trasportare in giro i suoi parassiti indipendentemente dalla loro volontà. L’atto di sottomissione che l’umano ha imposto alla natura 10 mila anni fa attraverso l’agricoltura lo ha, allo stesso tempo, reso per sempre schiavo dell’elemento vegetale. L’atto di ybris originario del primo agricoltore ha dunque paradossalmente messo il genere umano in balìa delle piante, specialmente di quelle da lui addomesticate.
Il caso della Grande Carestia in Irlanda, dovuta al fallimento di un intero ciclo produttivo di patate, è un esempio di come la natura, seppur geneticamente soggiogata (come nel caso della patata domestica), possa ancora plasmare il mondo umano. Nel mio lavoro immagino come la forza generativa di nuovi semi possa rivoluzionare una società asfittica, rinchiusa nella riproduzione sterile di modelli monoculturali autoreferenziali, inclusi i modelli economici relativi alla produzione e distribuzione di cibo, e abbozzo possibili paesaggi futuri, a stendo pensabili ma imminenti se non già esistenti, ma ancora non tematizzati, come quello della Tosco-Cina, dove file di cipressi orlano morbide colline e rigogliose piantagioni di cucurbitacee mai viste.

Per Manifesta 12, negli spazi dell’Orto Botanico di Palermo, hai messo su un piccolo orto sperimentale “per l’acclimatazione e la coabitazione di varietà migranti”. Quello delle migrazioni è un tema scottante, spesso affrontato in termini retorici, scontati. Quale il tuo approccio all’argomento?

La carestia irlandese, provocando una gigantesca migrazione, determinò – nonostante il milione di morti – un complessivo successo genetico della popolazione umana locale, che poté diffondere i propri cromosomi in un altro continente. Suona mostruoso, ma per un genetista alieno questo sarebbe l’aspetto più immediatamente “conoscibile” di quel disastro.
In termini non retorici la migrazione di oggi verso l’Europa è un fatto semplicemente inevitabile, nella congiuntura di boom demografico, guerra diffusa, povertà e devastazione ambientale che caratterizza i Paesi a forte emigrazione, oltre al fatto che le nostre economie sono in perenne ricerca di manodopera a basso costo. Ma ecco che la retorica paranoica della destra agita lo spettro della sostituzione etnica. In quanto animali simbolici costruiamo inevitabilmente “complessi retorici”, ma in questa fase le narrazioni anti-migratorie sono molto più floride di quelle inclusive. Mi sembra che l’unica narrazione pro-migranti attiva oggi in Italia sia quella cattolica.

E proprio di inclusività si nutriva il progetto palermitano, in contrasto con questo scenario. Come si articolava?

Nel mio lavoro abbozzo narrazioni alternative di tipo inclusivo, proprio come nel caso di “Foreign Farmers”, a Palermo, dove ho giocato con la metafora dei nuovi ortaggi, più resistenti ai cambiamenti climatici o ai parassiti: l’ho personalmente sperimentato trasformandomi in “contadino straniero” al Botanico di Palermo, dove le varietà di cucurbitacee Bengalesi, Filippine e Cinesi, già coltivate in Italia da alcuni anni a uso delle comunità migranti, sono arrivate sane e salve a fine Biennale, mentre le cucuzze siciliane si sono perse strada facendo. In questa prospettiva il multiculturalismo non si fonda quindi su un’altruistica accettazione dell’altro, ma sul bisogno concreto di collaborazione-incontro tra saperi diversi, a fronte di catastrofi comuni. In altre parole nel mio lavoro cerco di evitare forme pietistiche di rappresentazione dell’Altro/straniero come debole e bisognoso; del resto nella biosfera impazzita saremo tutti stranieri e le “poetiche dell’alterità” saranno una necessità del quotidiano.

Una tua dichiarazione: “Non credo in un ruolo messianico dell’arte, ma le forme del lavoro artistico possono innescare – spesso in modo complesso e talvolta contraddittorio – piccole ma significative sovversioni rispetto ai rapporti di potere pre-esistenti e alle narrazioni codificate”. Sei tra coloro che difendono un certo ruolo civico-politico dell’artista? In che forma e in che termini?

Penso che in tempi così complessi e conflittuali estromettere l’arte dall’ambito civico-politico non sia un gesto neutrale, e che sia anzi pericolosamente ambiguo, nascostamente politico e tendenzialmente collusivo con le istanze dominanti  e regressive. Il contenuto di una progettualità artistica può anche essere implicito, in certi casi anche criptato (nel caso in cui la sicurezza dell’artista sia messa a rischio ad esempio) ma non dovrebbe mai, secondo me, ostentare neutralità. L’arte non è riducibile a slogan messianico-politici e a ricette pre-confezionate per riscattare la società, ma allo stesso tempo non dovrebbe rinunciare al proprio potenziale trasformativo, in termini sia individuali che collettivi. Bisognerebbe però riflettere su casi di studio specifici, parlare in generale è sempre molto difficile. Per quanto riguarda il mio lavoro la fase di ricerca è fondamentale: è qui che le mie idee entrano in dialogo/conflitto con quelle di altri soggetti, ridimensionandosi, articolandosi e prendendo forme finalmente concrete.

(H.M.)